venerdì 6 maggio 2016

PUNK



di Luis Alberto González Arenas
traduzione di Pier Quarto

Il mondo è tornato a guardare Cuba e la sua bella capitale meticcia. Le palpitazioni per prima la visita del gruppo rock più famoso del mondo e per quella di un presidente degli Stati Uniti dopo 88 anni, hanno resuscitato un dialogo che è rimasto statico per più di mezzo secolo. Cuba è un’ode all’attesa: aspettare per comprare qualcosa da mangiare, aspettare per entrare in banca, aspettare perché arrivi l’acqua, aspettare la luce, aspettare una lettera, aspettare un amore. L’isola sembra trovare una disposizione organica mentre tenta di recuperare il proprio ritardo e di lasciare lo stereotipo e la paura a vantaggio della libertà di parola. Vuole conservare la sua innocenza, ma cerca alternative per costruire avvenimenti: dal movimento punk cubano che si unisce con il rock’n’roll, agli studenti che spingono per la caduta del blocco tecnologico. La guajira guantanamera non resta ferma ad aspettare in una melodia, ma esce a cercare la sua sessualità e un paese differente. Il fotografo della rivoluzione non parla più di politica ma della sua passione per l’arte e per le canzoni dei Beatles. L’attesa continua a essere complessa, ma incline alla tolleranza e immaginazione.
Bisogna essere creativi per nascondersi in una casa che misura 40 mq, inventivo per far sì che tuo padre, tua madre e tuo fratello non possano trovarti. Potrebbe essere nell’armadio dove sono riposti i vestiti di famiglia con un’immagine della Vergine della Carità del Rame a vigilare o nella doccia che non ha la tendina, ma è troppo rischioso. «Se non puoi nasconderti, scappa». A 10 anni, Humberto, fuggiva da casa sua non per la porta o la finestra, ma con uno stratagemma. Si buttava addosso chili di tutta la roba sporca che si accumulava in famiglia e, senza curarsi che la temperatura salisse fino a 35 gradi, o che il sudore lo avvolgesse e la poca aria lo asfissiasse, portava con sé un piccolo registratore che riproduceva a scarso volume Sister Morphine dei Rolling Stones.
«Mio padre era un meccanico militare, era bravissimo a riparare tutto ciò che avesse un motore. Mia madre vendeva succo di guayaba ed era profondamente religiosa. Che io seguissi quello che chiamavano diversionismo ideologico o musica del diavolo li faceva impazzire. Per me, il divieto, cominciò logicamente ad assumere una connotazione molto interessante».
Humberto, che ha compiuto cinquantaquattro anni due mesi fa, diventò punk nell’Avana degli anni Novanta. Aveva una cresta viola di quasi venti centimetri e indossava pantaloni e giacca di pelle, indipendentemente dal caldo. Così affrontava i quattro fermi al giorno che gli facevano in media per chiedergli i documenti d’identità e fargli delle domande che a volte sembravano uscite da un copione poliziesco: «Perché sei diventato un handicappato intellettuale?»
«Immagina la cosa più complessa per te che mi stai intervistando. Quella che credi sia la cosa più difficile del mondo. Questo è essere punk a Cuba».
Punk ormai fuori moda, che si dedica alle arti visuali e alla meccanica, Humberto afferma che la sua vocazione punk durerà per tutta la vita, finché avrà cuore e coglioni. Le nuove generazioni punk di Cuba, dice, non si sentono rappresentate dalla musica dei Rolling Stones, ma sono al concerto perché pensano che la visita della band rock più longeva del mondo, così come la presenza di un presidente degli Stati Uniti, marchi un momento storico.
«Bisogna esserci. La verità è che la stessa società, compresi quelli che seguono il rock’n’roll, guardano male chi è punk. Io sono un esperimento strano: la musica del Rolling Stones mi ha spinto in qualche modo ad attraversare un confine più profondo, quello del punk, e sembra che oggi me ne farà attraversare un altro, verso una maggiore libertà. Speriamo sia vero».
Per Humberto il punk a Cuba si riassume in coglioni: «Se hai i coglioni sei punk. Non è il fatto di avere una cresta più grande o più colorata, è avere cuore, qualcosa che viene dal profondo, da una convinzione».
Humberto, artista visuale, ha molti amici tra le nuove generazioni coinvolte in questo movimento urbano. Lo vedono con rispetto e ammirazione, quasi come un maestro. Così prende la parola una giovane donna del gruppo, Silvia Marlen, per dire che dentro la rivoluzione stessa c’è un cambiamento. Non credono che Obama sia venuto a risolvere il problema di Cuba, ma solo per trattare la parte che può portare beneficio agli Stati Uniti. Intorno si notano creste, piercing, tatuaggi e leggende anarchiche in giubotti senza maniche. Tutti aspirano fumo di tabacco che inonda la gola di speranza.
«Sì, è un momento speranzoso e inaspettato. Né il punk né nessuno in questo paese si è reso conto di quello che stava accadendo, e molte persone hanno risposto positivamente, sebbene ci sia una minoranza per cui tutto questo risulta doloroso. Si tratta di coloro che hanno dedicato la propria vita a un ideale antiimperialista. Nel contesto storico in cui hanno vissuto, videro come procedeva la rivoluzione e gli conveniva lottare per questo. In seguito si resero conto che la loro lotta non esisteva più, e che s’era portato via qualcuno in più».
L’icona del punk cubano – che protegge la sua identità dalle telecamere – comincia a sussurrare qualcosa a chi lo accompagna, è un sussurro che emerge come comandamento: «La tua memoria morirà, ma noi stiamo con loro e con quelli che non ci sono più».
I panni sporchi non si lavano più solo in casa, la paura di parlare svanisce poco a poco in favore di un’aria nuova, di un lungomare dalle acque apparentemente più serene per poter nuotare senza il bisogno di fuggire o di tirarsi addosso una montagna di calzini e pantaloni. Secondo Humberto, bisogna intendere tutto questo come un movimento di pace in cui si uniscono tutte le tribù urbane e rurali e che, oltre la politica, è una vittoria per il rock’n’roll.
Il venerdi, se riesco e li trovo, mi piacerebbe commentare scritti che parlano della nostra amata isola, tipo questo.
Come avrete notato vi sto' inondando di buona musica, se togli il Rock'n'roll non resta molto di bello a questo mondo per cui vale la pena vivere.
Essere punk a Cuba....negli anni 90'....tanta tantissima roba amici miei.
Ho seguito, senza amarlo in modo particolare, l'esperienza musicale e di costume punk nel mondo, negli anni in cui questa si manifestava.
Ho cercato di andare al di la' dei capelli viola e la ferraglia infilata in ogni pezzo di pelle disponibile.
Si e' trattato di un'importante movimento di protesta, magari un filino border line, che pero' ha avuto un suo perche'.
Parlo dei gruppi storici, non certo quel pirla di Maurzio dei Crisma che si tagliava il dito durante un concerto....
I Sex Pistols, ad esempio, sono stati protagonisti di canzoni che hanno messo in discussione persino l'istituzione piu' famosa per gli inglesi; la Regina.
Ripeto, non ho amato certe loro esibizioni esteriori ma la musica, parte di quella musica, era buona.
Se non si vuole cambiare il mondo a 20 anni non oso pensare come ci si riduce a 40.
A Cuba tutto arrivava con grande ritardo, per le vie piu' traverse, mi immagino il percorso di un Punk in quegli anni, non deve essere stato tanto diverso da quello di un omossesuale.
Oggi e' tutto differente, siamo addirittura all'eccesso opposto, la gente va in giro vestita come gli pare, ma in quegli anni le cose giravano in modo differente.
Sono stato amico del primo gay dichiarato di Las Tunas, so la vita che ha fatto prima di riuscire, faticosamente e molto trabajo passato, ad uscire dal paese.
Non parlo di uno che andava in giro con tacchi e mascara, ma di un ragazzo assolutamente normale.
I Punk a Tunas non li ho mai visti ma i rockeri si.
Il parque cittadino e' di fronte al palazzo della cultura, ogni tanto venivano fatti alcuni concerti rock, dove si radunavano tutti i ragazzi e le ragazze che si riconoscevano in quel movimento che era anche di protesta.
Il Rock e' sopratutto protesta, sovvertimento dello status quo, voglia di cambiare tutto.
Ricordo che passai anche una notte con una giovane e molto carina rockera.
Al secondo graffio e terzo morso le dissi di piantarla o la tiravo giu' dalla ventana....
Vestirsi in un certo modo aiuta a riconoscersi, capitava anche da noi quando ero ragazzo.
I Mods, i paninari, i cremini, i “compagni”, i fasci....tutti ci si riconosceva dal come ci vestivamo, nessuna generazione, in quegli anni, sfuggiva da questa regola.
A Cuba i rockeri si vestivano come potevano, la cosa importante era uscire dal branco, ovviamente non sapevano che essere anticonformisti e' spesso il miglior modo per cadere nel conformismo.
L'arrivo degli Stones e' stato l'ultimo e decisivo atto di liberalizzazione nei confronti di chi ha deciso di vivere la propria vita in una certa maniera.
Nulla sara', da quel punto di vista, come prima.
La gente oggi ascolta tutta la musica che vuole, vede i video che preferisce, non ha piu' bisogno di buttare un copertone in mare per fuggire via.
Certo questo portera' all'estinzione della loro unicita', ovviamente loro di questo non se ne rendono conto, ora....magari fra qualche anno capiranno.
Il vecchio punk, quello fermato 4 volte al giorno dalla policia nel periodo special, come e' capitato a tutti, si sara' integrato nel sistema.
Anche a Cuba, come e' capitato e capita in ogni parte del mondo, ci si ridurra' a nascere incendiari per morire pompieri.
A LUNEDI.

M&S CASA PARTICULAR HA AGGIUNTO UNA CASA.

14 commenti:

  1. Nella capitale oramai si vede di tutto, creste, piercing, tatuaggi e altro. Giuseppe

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    1. Da noi, come sempre, importano le cose...meno significative.

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  2. hola! è vero la moda è anche una forma di evasione per questo i giovani ne abusano fin troppo. Certo che il rock al caribe snatura l'essenza della musica melodica/romanticona che associamo a quelle latitudini. Comunque vedere una repartera caliente perreando è una gran cosa......hai visto che belle, comode, indipendenti e di qualità pari o superiore a molte case capitaline quelle di playa del este? il mare vicino a la habana è il mix perfetto per me
    chao Enrico

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  3. Ogni epoca storica e ogni generazione ha i suoi riferimenti culturali.
    Certo che al Caribe non abbiniamo rock e punk ma....altro

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  4. massimo gramellini

    L’uomo che una giuria di eminenti colleghi ha incoronato giornalista dell’anno per le sue spassose edicole multimediali ha un rapporto controverso con la tecnologia. «Ricordo quando mia moglie mi rivelò che si potevano mandare messaggi al proprio numero di telefono. Faccio una prova: scrivo “Ciao” e me lo spedisco. Poi me ne dimentico e dopo mezz’ora riprendo in mano il telefono. Trovo un nuovo messaggio: “Ciao”. “Chi sei?”, scrivo. E lui risponde: “Chi sei?” Allora mi arrabbio. “Ma chi sei tu piuttosto, cafone!” Sono andato avanti a insultarmi da solo per un quarto d’ora». Ignoro se la storiella sia vera, inventata o romanzata, ma nell’ascoltarla ridono tutti, anche agli altri tavoli dell’albergo in cui stiamo facendo colazione. Io con croissant e pasticcini, lui con mezzo biscotto. «La mia dieta consiste nel mangiare la metà di tutto».

    È curioso ma non assurdo che un ex animatore turistico sia diventato il simbolo della resistenza di un mestiere in crisi. Il giornalista? No, il giornalaio. «Ormai in edicola ci vai solo se devi comprare altro. A quel punto magari compri anche il giornale», dice. Eppure il programma con cui Rosario Fiorello si accinge a tornare in televisione dopo cinque anni di vuoto sarà la rassegna stampa dei quotidiani.

    Quando hai preso in mano il tuo primo giornale?
    «A tre anni per fare la cartapesta. Da bambini le notizie non ti riguardano. Poi si comincia al bar, con lo sport e la cronaca nera. In posti come quello dove sono cresciuto, Megara Hyblaea, hai il vantaggio di conoscere tutti i personaggi coinvolti. “Questa rapina mi sa che l’ha fatta Franco”. “Veramente a me sembra più lo stile di Gianni.” Quando però arrivavo io, gli altri si azzittivano. Ero pur sempre il figlio di un appuntato della Guardia di Finanza».

    Tuo padre Nicola.
    «Era bellissimo, per il concetto di bellezza di allora. Con quei baffetti assomigliava a Mimmo Modugno, che mio fratello Beppe avrebbe poi interpretato in tv. Quando eravamo piccoli, papà guardava Beppe e diceva: “Questo è un attore”. Poi guardava me: “Questo invece è un cretino”. In fondo ci ha azzeccato su tutti e due».

    Era orgoglioso di te?
    «Avrebbe voluto che andassi all’accademia della Guardia di Finanza come lui. Però una volta venne a vedermi in uno spettacolo e disse: “Fai quello che devi fare”».

    L’intrattenitore nei villaggi.
    «E lì i giornali diventarono fondamentali, perché in Costa d’Avorio nel 1980 non arrivavano notizie dall’Italia. Andavo in astinenza e appena i clienti scendevano dalle barche guardavo le borse per vedere se spuntavano i quotidiani. Erano del giorno prima, ma me li divoravo fino all’ultima riga».

    Prima di Internet eravamo necessari come il pane. Adesso siamo più simili a un dessert.
    «Oggi chiunque fa giornalismo con i blog. Escono anche un sacco di cavolate che nessuno controlla più. Per la mia ospitata al Rischiatutto mi hanno attribuito un compenso triplo rispetto a quello vero. Ma non potevano telefonarmi?».

    Come li leggi, i giornali?
    «Con la tecnica della scrittura veloce, pur senza avere mai fatto un corso. Scorro gli articoli per coglierne l’essenziale».

    Usi l’iPad?
    «Sì, ma preferisco la carta. Mi piace sentire il vento della pagina, fare le orecchiette, perdermi nella lettura dei necrologi. Ricordo ancora negli Anni Novanta quando a Radio Deejay arrivava l’eco della stampa, tutti quei pezzi di giornale ritagliati e infilati dentro un bustone. I più belli li conservavo. Ora non si tiene più nulla. È come per le foto. Io ho ancora gli album di mio padre. Immagini ingiallite, però ci saranno sempre. Della mia famiglia avrò centinaia di foto, ma tutte sul cellulare. Hai voglia a fare i back-up, tanto prima o poi arriva un Millennium Bug e sparisce tutto».

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  5. Hai accennato alla radio. La seconda delle tue molte vite.
    «Mi trasferii a Milano con un mio collega dell’animazione, Bernardo Cherubini, fratello di Jovanotti. “Andiamo lì”, disse, “è pieno di gnocca”».

    La vera motivazione quale era?
    «Quella. Che Milano era piena di gnocca. Per un po’ abitai a casa di Lorenzo, in via della Moscova. Lui era già un disc-jockey famoso. Io solo un esuberante, egocentrico animatore da villaggio. Uno che aveva vissuto per quindici anni senza mai infilare un paio di scarpe».

    Il boss della radio in cui lavorava Lorenzo era Claudio Cecchetto.
    «Rimase colpito da me. A Deejay facevo la pianta, come dice Fabio Volo. Osservavo Jovanotti, Linus, Albertino. Prestavo la voce quando serviva. Nel primo programma tv di Lorenzo, “Uno due tre Jovanotti”, imitavo al telefono Montesano e Mike Bongiorno».

    E il lavoro da animatore?
    «La Valtur mi aveva fatto un contratto a tempo indeterminato, ma io avevo ormai deciso di provare con lo spettacolo. Presi l’aspettativa e tornai a Milano, stavolta in via Alberto da Giussano. Lì mi aprì la porta Sandy Marton».

    Quello di “People from Ibiza”. Ma era un cantante vero?
    «Certo. E le donne impazzivano per lui. Suonavano al citofono e chiedevano di Sandy, che era nell’altra stanza sempre con qualcun’altra e si affacciava solo per gridarmi: “Dì a tutte che io non ce sto, io no sto aquì”. Il mio primo mestiere a Milano fu il citofonista di Sandy Marton».

    Eravate tutti figli di Cecchetto.
    «Un genio. Ricordo quella volta che mi telefonò alle tre di notte: “Sono Claudio, vieni subito qui!” Arrivo a casa sua e mi fa sentire una cassetta con uno che canta una poesia di Carducci. “La nebbia agli irti colli…”. Io gli faccio: “E allora?” E Cecchetto: “Allora domani la incidi e fra una settimana siamo primi in classifica”. Aveva ragione lui».
    E dopo Deejay, arrivò la tv col karaoke.
    «Registrammo ad Alba quindici puntate di un format olandese che non mi convinceva. Andammo in onda alle otto di sera su Italia Uno contro tutti i tg. La prima settimana ci guardarono in 400 mila e l’idea era di chiuderlo. Io me n’ero già tornato in Sicilia. Ma dall’ottava puntata si passò a 800 mila e poi su, fino a due milioni e oltre. Mi chiamarono: “Fiore, torna, dobbiamo partire”. Un anno dopo ero il terzo personaggio più popolare d’Italia dopo il Papa e Di Pietro».

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  6. Sennonché a inghiottirti arrivò il buco nero di Sanremo.
    «Mi piazzai quinto dietro gente come Morandi, Giorgia e Bocelli. Ma le aspettative erano così alte che tutti parlarono di flop. Pippo Baudo sentenziò: “Caro Fiorello, sei entrato Papa e sei uscito cardinale”».

    Quindi è vera la leggenda che il Festival ti porta male.
    «La prima volta che ci andai, inviato da Radio Deejay, mi arrivò lì la notizia che papà era morto. A 58 anni. Disse a mia madre: scendo a prendere le sigarette in macchina. Ma non tornò più. Lo trovarono appoggiato al volante. Ictus».
    Anche lui direbbe che saresti un fantastico presentatore del Festival.
    «Vorrei sempre essere al posto di quelli che presento. Condurrò Sanremo quando toglieranno i cantanti e potrò fare tutto da solo… Allora comunque sembrava che molti non vedessero l’ora di vedermi cadere. Così decisi di stare fermo».

    La difesa della sconfitta.
    «Per un po’ feci il conduttore classico. “Matricole”. “Festivalbar”. Non sudavo neanche. Mi sentivo uno che era stato e che non era più. Chi mi aveva conosciuto da ragazzo mi diceva: “Quanto mi facevi divertire nei villaggi!” Era un modo gentile per dirmi che non lo facevo divertire più».

    Come ne sei uscito?
    «La svolta arrivò all’Arena di Verona. Stavamo registrando la finale del Festivalbar e io ero nei soliti panni del bravo presentatore. Ma la pioggia aveva bagnato gli impianti elettrici. Il patron Vittorio Salvetti mi dice col suo vocione: “Vai sul palco e intrattieni la gente”».

    E tu?
    «Io salgo sul palco e mi guardo intorno. Quattordicimila persone che erano lì per tutti tranne che per me. Prendo il microfono e comincio a sparare cazzate. Così, solo per far passare il tempo. Quindici minuti. Ci prendo gusto. Il pubblico ride. Venti, trenta, quarantacinque minuti di cazzate, finché un tecnico dietro le quinte mi fa cenno che il guasto è stato aggiustato e la messa cantata può cominciare».

    Sai che non ricordo quel tuo monologo?
    «Non andò mai in onda, venne tagliato. Ma in prima fila all’Arena c’era un signore che alla fine mi abbordò con accento bolognese: “Ma tu sei uno showman. Dovresti fare il sabato sera su Raiuno”. Era Bibi Ballandi. Pensavo fosse impazzito. E invece lasciai Mediaset, dove nessuno fece nulla per trattenermi, e cominciai a lavorare con Solari e altri autori al mio primo one-man-show».

    «Stasera pago io».
    «Avevo in casa un cd di Modugno e quello era il titolo dell’unica canzone che non conoscevo. Triste, eppure me la sentivo scorrere dentro».

    Modugno è il nume tutelare della vostra famiglia.
    «Si parte e contro di me c’è la prima edizione di “C’è posta per te”. La De Filippi vince la prima puntata di un milione, la seconda siamo pari, la terza la sorpasso e la quarta trionfo. Allora si andava avanti con la prima serata fino all’una, ma a mezzanotte avevo già finito il copione e nell’ultima ora andavamo a braccio. Feci piazzare un lettone sul palco: una sera ci stavamo sdraiati sopra io, Teocoli, la Littizzetto e Califano. Povero Califano. Mi ero inventato il tormentone di lui che mangiava sempre e Franco, noto inappetente, se ne lamentava. “’A Fiorè, io non magno mai e invece adesso ogni vorta che quarcuno mi incontra me chiede subito se ho già magnato o se vojo rimagnà”».

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  7. Finalmente facevi quello che eri.
    «E chi mi fermava per la strada non rimpiangeva più i tempi del villaggio turistico».

    Tu li rimpiangi?
    «Mi hanno dato tanto. Mi hanno dato un pubblico. Ancora adesso faccio le convention per testare le battute. Quando ho un pubblico a disposizione non lo posso sprecare».

    Non ti manca la prima serata? Sono passati cinque anni dall’ultima volta.
    «Ogni tanto Bibi Ballandi mi chiede: “Allora, Rosario, siamo pronti?”. Ma il pensiero di tornare ora mi dà più ansia che gioia. Sento un’enorme pressione, un’attesa che potrebbe ritornarmi addosso come un boomerang. Se un altro programma fa il 25 per cento si parla di boom, ma io devo fare il 40, altrimenti è un flop».

    E così hai sterzato sul varietà giornalistico…
    «EdicolaFiore fonde vecchio e nuovo. Carta e smartphone. Io che col telefono riprendo il mio edicolante Cesare mentre commenta i titoli dei giornali: “Sti fiji de na mignotta!”».

    Ma è vero che adesso vuoi portare l’edicola in tv?
    «Ho fatto un appello sul web a Rai, Mediaset, La 7 e Sky. Una sola delle quattro ha risposto».

    Sospetto sia la Rai.
    «Faremo dieci puntate di prova, poi se va bene da ottobre diventerà un appuntamento fisso. Punteremo sul buon umore, lasciando fuori le notizie tristi, con un ospite, un po’ di musica e molte battute».

    Quanto ti infastidiscono le critiche sul web?
    «Prima noi personaggi dello spettacolo pensavamo di piacere a tutti perché per strada ti ferma solo quello a cui piaci. Invece sul web la gara è a chi ha meno persone che lo odiano. I primi tempi non ci ero abituato. Ora ho imparato che non si può piacere a tutti. Ballandi mi dice sempre: “Rosario, Gesù ne aveva solo dodici eppure uno l’ha tradito. Pensa tu che ne hai milioni”. Ma anche a teatro se 4.999 ridono e uno no, il mio sguardo va fisso su di lui. Quelli a cui non piacciamo ci sono sempre stati. Ora semplicemente hanno uno strumento per fartelo sapere».

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  8. Ma non eri uscito dai social sbattendo la porta?
    «Ma sono rientrato subito. Con quattro account falsi».

    E che te ne fai?
    «Azioni di disturbo. Faccio il troll…»

    Perché non frequenti più la satira politica?
    «Sul web ci sono milioni di battutisti potenziali che si esercitano sulla stessa notizia, che di solito è politica. Gli stessi politici la satira se la fanno benissimo da soli. E poi c’è Crozza che è il più bravo di tutti».

    Tu non ti trasformi fisicamente come lui.
    «Le mie imitazioni colgono un aspetto dell’originale. Camilleri nacque così: mi affacciai da una finestra di Radio Rai a via Asiago e lo vidi passare con una stecca di sigarette sotto il braccio: “Fino a stasera ci devo arrivaaaaare”, disse. Aveva la voce di un La Russa lento. A Gianni Minà sbirciai una foto di nascosto mentre mi parlava, in cui era ritratto tra De Niro, il Dalai Lama e Ivana Spagna».

    A chi si rivolge una rassegna stampa televisiva del mattino?
    «A quelli come me che appena svegli accendono la tv su Sky 100 o Rainews. Intanto mi lavo, mi vesto, faccio cose. Ma se sento una notizia che mi colpisce mi fermo a guardarla».

    Per te non è un problema andare in onda la mattina presto?
    «Io da anni mi sveglio in automatico alle sei meno un quarto, recupero con una pennica al pomeriggio e la sera, quando non lavoro a teatro, svengo».

    Hai decisamente cambiato abitudini rispetto alla giovinezza.
    «Sì, io la Milano da bere me la sono bevuta tutta. Uscivo a mezzanotte e tornavo dal giro dei locali alle cinque, poi dormivo e all’una me ne andavo in radio. Adesso esco di casa alle sei del mattino e vado al bar di via Flaminia, dove trovo l’edicolante, il benzinaio… Tutti cinquantenni come me. Tutti Adp. Amici della prostata».

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  9. Squadre in campo per il riscaldamento finale allo stadio Grande Torino. Ultima sfida stagionale casalinga per i granata di Giampiero Ventura che ospitano la compagine guidata da Sarri (oggi salito al colle di Superga). E mentre i ragazzi sono in campo, ecco che arrivano le formazioni ufficiali di Torino-Napoli.
    LE FORMAZIONI UFFICIALI DI TORINO-NAPOLI

    TORINO (3-5-2): Padelli; Bovo, Jansson, Silva; Zappacosta, Benassi, Vives, Acquah, Peres; Martinez, Belotti. A disposizione: Ichazo, Castellazzi, Molinaro, Obi, Farnerud, Immobile, Lopez, Gazzi, Baselli, Maksimovic, Moretti, Glik. Allenatore: Ventura.

    NAPOLI(4-3-3): Reina; Hysaj, Koulibaly, Albiol, Ghoulam; Allan, Jorginho, Hamsik; Callejon, Higuain, Insigne. A disposizione: Rafael, Gabriel, Strinic, Valdifiori, Maggio, Mertens, Regini, Diego Lopez, Chiriches, Gabbiadini, El Kaddouri, Grassi. Allenatore: Sarri.

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  10. Stadio pieno, manca completamente il rispetto per la gente.
    Speriamo sia l'ultima volta a Torino di questo buffone di allenatore.

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